L’infinito in condotta

…e l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto.

Premettendo che io, non si sa per quale ragione oscura, ho ottenuto un miracoloso 10 in condotta, vorrei dare un nome a quelle sensazioni provate dopo aver visto i tabelloni di fine anno. Il mio lo definisco un miracoloso 10 in condotta, per non dire immeritatissimo, e contraddirmi così su quello che sto per dire.
Se dovessi tenere in considerazione i voti che sono volati alla consegna delle pagelle, allora sì, dovrei parlare di 10 immeritato.
Analizzando infatti i soggetti a cui è stato destinato il bollente 8 in condotta, potrei arrivare alla conclusione che l’infinito è toccato alle seguenti categorie di persone: assenteisti, falsificatori di firme, casinisti, polemici.
A questo punto non posso che non chiamare compari, tutti quei poveracci dall’8 in condotta. Non posso non darvi il mio appoggio, compari che porterete il segno dell’infinito su quel famoso anno 2008-2009.
Io non sono un’assenteista, e neanche una falsificatrice di firme. Però ammetto di aver peccato di “casinismo” e “polemicismo”. Per questo non mi spiego tutt’ora il mio improvvisato 10 in condotta.
E molto probabilmente una simile cortesia non mi verrà riproposta dopo questo articolo.
Eppure, anche se mi converrebbe tener la bocca chiusa e ringraziare per questa grazia, non riesco a non esprimere quanto questa novità dell’8 in condotta mi abbia scioccata. Non credevo, onestamente, che fosse possibile che, nonostante la presenza di alunni di un innegabile livello di educazione più alto rispetto ad altri, i tabelloni potessero essere disseminati di 8 in condotta. Li posso accettare per gli assenteisti e per i falsificatori – beccati – di firme. Ma non riesco, con tutto il mio cuore, a concepire un 8 in condotta per punire qualcuno che chiacchiera e che risponde ai professori.
Ok, capisco, da quest’anno la storia è cambiata, niente più 9 politico a tutti, vogliamo fare delle distinzioni? Facciamole, non sono contraria. Diamo 10 a i super super diligenti, quelli che stanno sempre al loro posto, non disturbano, sono quasi sempre presenti, non si lasciano distrarre dal Gatto e neanche dalla Volpe e vanno dritti verso la scuola, così alla fine della fiera, loro sì che diverranno dei bravi bambini veri.
Ma mi è parso demotivante e diseducativo schiaffare un 8 a chi, come me, fa un po’ casino ed esprime sempre la sua opinione.
Perché di questo credo che si tratti. Nella mia classe, ad esempio, le anime più polemiche sono state punite (tranne me, ripeto). Ma mai queste pesti polemiche hanno oltrepassato il confine. Mai sono passate dal far sentire la propria voce all’essere inopportune e maleducate. Atti del genere vanno puniti con l’8 in condotta. Ma non il battibecco per far spostare il compito in classe.
Io ho sempre vissuto con una scala di principi. E tra questi c’è sempre stato il lottare per ciò che si vuole, esprimere sempre la propria sincera opinione, difendere ciò che è giusto, anche se il prezzo da pagare è quello di farsi etichettare come ‘personaggio scomodo’. Non riesco ad essere d’accordo con chi sostiene che l’autorità del professore è inattaccabile, che noi studenti non dobbiamo far altro che accettare e imparare annuendo consenzienti. Non riesco. Forse perché credo che un insegnante sia pur sempre un essere umano, e come tale imperfetto e soggetto all’errore. Forse perché credo con tutta me stessa che accettare un’imposizione senza neanche stare a riflettere su ciò che ci viene imposto, giusto o sbagliato che sia, sia estremamente diseducativo.
Perché se ci riflettiamo su un attimo, ci renderemo tutti conto che quell’8 in condotta è un inquietante messaggio. È una sorta di ‘Impara a tacere oggi, e vedrai che ti verrà buono domani’. Già, perché la società ormai ragiona in questi termini. Chi mai darebbe 30 in un esame a uno che non faceva altro che protestare durante le lezioni? Chi mai vorrebbe un personaggio scomodo nel team di lavoro? Chi mai nominerebbe capo di un’azienda uno che semina zizzania ovunque passa?
Questo è, ahimè, l’unico insegnamento che riuscirei a trarre da un 8 in condotta. Altri non ne trovo. Forse l’imparare ad essere meno casinisti e più rispettosi. Questo lo posso accettare.
Ma se quell’8 in condotta era per insegnarci a tenere il becco chiuso, a rigare dritto, ad annuire, a spingere altri a rischiare la pelle per portare avanti quello che anche noi pensiamo, a diventare maledettamente omologati, allora sono fiera del mio 8 (+2) in condotta. E gloria al simbolo dell’infinito!

“Guardare e non toccare, guardare ed ingoiare. Ti han detto che c’è posto per chi sa stare a posto.
Alla faccia di chi ti ha visto X, alla faccia di chi ti pensa X, alla faccia di chi ti vuole X.”

Cecilia Pizzaghi

The Sparrow and the Crow

The Sparrow and the CrowWilliam Fitzsimmons nasce in Pennsylvania nella città di Pittsburgh. I suoi genitori sono ciechi e il piccolo William fin dalla nascita è abituato a giocare con i suoni e a provarne di nuovi. Alle scuole elementari si innamora del pianoforte e nella adolescenza di avvicina al suono della chitarra, imparando a conoscerla da solo.
Si appassiona in seguito ad altri strumenti musicali, quali mandolino, ukulele e al banjo iniziando a creare mix originali di folk-rock ed elettronica e componendo poesie.
William viene scoperto grazie al noto social network Myspace, e alcune sue canzoni vengono scelte per il programma televisivo Grey’s Anatomy. La sua creatività viene subito riconosciuta, tanto che è paragonato ai suoi contemporanei Sufjan Stevens e Elliot Smith.
Attualmente vive a Jacksonville, Illinois.

E’ la canzone di quando finisce un amore, è l’immagine che si sfuma in una strada grigia e umida. Due mani, che si toccano per l’ultima volta,e poi si salutano. I pugni si chiudono piano piano ma tutta la pioggia cade dentro il petto e non finisce più. Sono le note di “After Afterall” accompagnate dalla voce piena di William Fitzsimmons e da quella angelica e quasi aliena ( per la bravura intendo) di Caitlin Crosby. Solo il rimpianto e la ricerca sfrenata e quasi forzata di ricordare che tutto non è andato perso, che tutto non è stato uno sbaglio, che nonostante tutto rimarrà nel cuore qualcosa di buono.
Quel pianoforte che piange riesce a smuovere l’animo anche del più freddo, i rintocchi pesanti seguono i battiti, e la mente chissà dove va. Va forse a catturare ricordi del nostro passato ormai pieni di ragnatele, dolori infantili o dolori vicini, nascosti al più presto per non essere più ricordati.
Si cambia un pò scena in “I don’t feel it anymore( song of the sparrow)”, Poetica,soave, leggera. Compare all’improvviso come uno “sparrow” la voce di Priscilla Ahn che regala all’atmosfera una dolcezza e una intimità rara. Le due voci si uniscono in un testo che canta di ricordi e sbagli del passato, e ancora di un amore perso.
La genialità di William sta nel far conciliare perfettamente musica e testo, anima e corpo seguendo sempre la stessa linea e non distaccandosi mai dai suoi temi preferiti.
Lineare e pulito, con pochi strumenti ma tante idee chiare, riesce a creare un sound vincente e moderno che si distingue dai soliti rock melodici, riuscendo ad essere quasi commerciale rispetto al suo “amico” Thomas Dybdahl, che di originalità forse ne ha di più, ma di essere al fianco dei più famosi proprio non ne vuole sapere.
Non tutto il disco però è attraversato da una malinconica melodia. Brani come “You still hurt me” , regala fin dall’inizio un sorriso, e sembra anche lui ridere mentre canta pezzi di “13 months since May” e di quando lui era felice, e tutto questo gli sembra ieri. Concetti banali, forse comuni a tutti, ma raccontati con cura e attenzione.
Ovviamente il disco si chiude con una canzone di speranza, altrimenti se William avesse deciso di concludere con una copia di After Afterall a quest’ora saremmo già tutti morti sotto un ponte. E invece no, sconvolgendomi sempre di più saluta tutti e chiude il suo teatrino artigianale con un “Goodmorning” che sa di caffè e risvegli felici, di finestre che si aprono, di soli che entrano in casa e scaldano il pavimento, di famiglie in pigiama che entrano in bagno, di rumore di biscotti in cucina.
Sa di speranza insomma. Forse lui stesso si dà forza per andare avanti, si dà un buongiorno felice, o forse lo dà a tutti noi e spera che ogni giorno ciascuno abbia un mattino felice e quasi alla “Mulino Bianco”.

Beatrice Cristalli

Abuso edilizio, arte tutta italiana

Il signor architetto è in ritardo. Aereo annullato. E già partiamo male. Forse la cosa era voluta, perché è tipico dei grandi (artisti) perdere la cognizione del tempo. Oppure, più semplicemente, diamo ancora una volta la colpa all’Alitalia.
Mi viene in mente Crozza e la sua imitazione, il suo ‘Architetto Designer Art Creator Life Styler Fuffas’. Lui sapeva vendere bene il suo prodotto, cioè baggianate. E mentre aspetto il vero signor architetto osservo la gente in sala con un filtro abbastanza polemico. Guardo questa nuova generazione di architetti venuti a sentire questo life styler. Molte delle cose che origlio sono considerazioni ironiche nei confronti di Fuksas e del suo ego. E di nuovo penso a Crozza, a quanto volesse enfatizzare l’ignoranza e l’arroganza di questi nuovi architetti. E penso ad una frase, messa in bocca a quel Fuffas di La7: “I politici pensano poco al cittadino… l’architetto non ci ha mai pensato”.
E qui mi riallaccio all’intervento di Settis, un altro che si occupa d’arte, che però non si è fatto aspettare per la conferenza di pochi giorni fa. Forse perché non aveva bisogno del ritardo. Gli è bastato aprire bocca per mostrarci il suo calibro. Settis ha parlato di abusi edilizi (la bellezza di 9 milioni in Italia, contro i 4 in India), di mancata tutela del paesaggio, del territorio e dei beni culturali. E dall’altro lato vedo tutti questi giovani architetti bisognosi di stupire il pubblico (pubblico, non cittadini), aspiranti alla meraviglia. Settis ci ha messo davanti un paradosso: l’Italia è il paese europeo con il più basso tasso di crescita demografica, eppure è anche il paese con il più alto tasso di consumo del territorio. Fuksas ci dice che in Italia non c’è posto per gli architetti, che non c’è futuro. Ricordo un’intervista in cui proprio Fuksas diceva che in Italia ci sono circa 5000 iscritti ad architettura e c’è posto solo per 500. Ricordo che tale affermazione mi aveva colpito, essendo prossima all’iscrizione ad architettura. Sono d’accordo. L’Italia è veramente il paese delle stramberie. Settis ha basato il suo intervento sul fatto che l’Italia sia stata la prima nazione al mondo ad inserire la legge per i beni culturali e il territorio tra i principi fondamentali della Costituzione, sul fatto che sia stata proprio l’Italia a fare scuola, a indirizzare gli altri Paesi, sul fatto che l’Italia abbia una tradizione artistico – culturale invidiata da tutto il resto del mondo, e sul fatto che, ora, proprio l’Italia non stia facendo altro che giganteschi passi indietro. Già, perché queste ottime leggi, in campo pratico, non funzionano. Settis sostiene che gran parte della colpa vada ricondotta alla scuola, nella quale questi temi vengono quasi totalmente messi da parte. E da studentessa, confermo. Ancora, perché questa urbanistica aggressiva? Sempre Settis richiama alle nuove offerte del Piano Casa portato avanti dal governo Berlusconi e dice che si tratta di un piano che legittima e quasi incoraggia l’abuso edilizio. Quando si dice ‘o tempora o mores’. E ancora, questi benedetti architetti? Fuksas ha proposto una specie di esodo. L’architetto, che, guarda un po’, lavora all’estero ormai da anni, sarà anche arrivato in ritardo, ma almeno le cose le dice. In Italia non ci sono più committenti. Ed effettivamente, guardando il progetto dell’aeroporto di Shenzhen fatto proprio dal nostro Signor architetto, per il quale il governo cinese ha investito la bellezza di 1,5 miliardi di euro, non posso non pensare alla nostra misera ed umile Malpensa, che a paragone sembra l’aeroporto che io costruivo col Lego da bambina. Non posso non pensare alla nostra maledetta tratta Piacenza – Milano, e al fatto che un treno regionale di Trenitalia, per percorrere questi miseri 66 Km, ci impieghi, non considerando i ritardi, più di un’ora. E ora, che ci resta da fare? Emigriamo tutti quanti? Smantelliamo mezza Italia e ricostruiamo tutto? Vendiamo tutti i nostri beni culturali, li mandiamo in luoghi dove saranno tenuti e valorizzati, meglio, nella speranza di sanare in parte questo debito pubblico da record? Potrebbero essere proposte alla Fuffas. In effetti. Settis ha concluso il suo intervento con un monito, cioè che bisogna iniziare a tutelare concretamente il territorio in quanto specchio della nostra cultura. Dall’altro lato Fuksas è proiettato nel futuro. E se la soluzione fosse questa? Se l’Italia non rimanesse ancorata alla sua tradizione, alla sua ostentazione del classicismo, al portare i tempi d’oro che furono a vessillo per esaltare una nazione che sta andando pian piano alla deriva? Se fosse ancora in grado di fare scuola, se mostrasse a tutti il suo valore artistico attuale, dando fiducia a questi nuovi architetti, artisti del futuro? Se questi artisti, come Fuksas, che fondano la loro conoscenza e la loro bravura proprio sulla nostra meravigliosa cultura, non fossero costretti a fuggire in Cina o in India, ma avessero spazio anche qui? Se ci fosse ancora la possibilità per meravigliare ed essere meravigliati? E non più solo per le nostre inefficienze?

Cecilia Pizzaghi

Debito e crisi finanziaria

Logo Festival del Diritto

Perchè ci si sta interessando del problema del debito?
Il concetto di debito pubblico si associa normalmente a quello di crisi economica di un paese. E’ ormai un problema attuale e globale e non solo limitato alla realtà italiana.

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Il Festival dei paradossi

Logo Festival del DirittoLa seconda edizione del Festival del Diritto di Piacenza si è chiusa con grande successo. Nei palazzi più belli del centro storico piacentino grandi esponenti di vari ambiti hanno trattato temi attuali, seguendo ciascuno quel filone del diritto più affine alla propria disciplina. Per questa occasione Piazza Cavalli, e così anche gran parte della città, si è tinta di bianco e blu, i colori del Festival, trasformandosi in una sorta di salotto pubblico, attorno al quale ruotavano tutte le attività.Continua a leggere “Il Festival dei paradossi”