L’Odissea della seconda vita

E’ difficile raccontare un’esperienza ai confini della realtà, che molti non possono nemmeno immaginare poiché mai vissuta e di cui altri ancora, pur avendola sperimentata, non hanno la possibilità di fornire testimonianza. Sono passati quasi due anni dal 27 febbraio del 2016 eppure non riesco a dimenticare il percorso compiuto prima del risveglio, viaggio al centro del subconscio, odissea della seconda vita. Nessuno conosce esattamente cosa senta il cervello di un paziente in coma, secondo alcuni la totale assenza, secondo altri solo impulsi, io credo che viva in una dimensione al confine tra cielo e terra, una sorta di limbo, un limite tra vita e morte o meglio tra vita e nuova vita. Negli anni le testimonianze dei pazienti hanno portato a comprendere meglio le caratteristiche del presunto luogo in cui essi vengono rilegati per tempi più o meno lunghi. Non si riesce a vedere il proprio corpo, forse perché è assente, materia incorporea, o forse perché non viene concepito il concetto fisico di essere umano. Ricordo un paesaggio desolato, tetro e buio in cui perdersi, ricoperto da fango, melma e salici piangenti. Ero da sola senza una metà, senza un motivo, senza una guida e non avevo memoria degli eventi recenti solo dei grandi episodi che avevano caratterizzato la mia vita. Non percepivo lo scorrere del tempo, nemico degli uomini, e non pensavo a passato, presente o futuro. Per una volta, disconnessa dal mondo che conoscevo, ero inconsciamente spensierata, come un giocoliere che si trova a sfidare il pericolo, pur rischiando di non fare più ritorno. Il mio viaggio fu relativamente breve, o almeno a me sembrò così. Dopo cinque giorni trascorsi a vagare per la terra afflitta e incolta, in cui ogni elemento sembrava ripetersi all’infinito secondo una sorta di trama, all’improvviso vidi di fronte a me una macchia che cresceva sempre più nell’oscurità e una luce abbagliante irruppe violentemente. Gli occhi a fatica si abituarono all’insistenza del bagliore e, aprendosi lentamente, ritrovarono il corpo abbandonato, pareti verdi pastello, un orologio fermo e riflessi di luce provenienti dal vetro della finestra, tutti elementi sconosciuti. Impiegai molto tempo a convincermi che non mi trovavo in un sogno e che in realtà avevo passato cinque giorni in coma. Spesso accadeva che mettessi alla prova le persone vicine, chiedendogli episodi personali fino a quando mi resi conto che probabilmente questa era la realtà e dovevo accettarla. Ogni giorno procedeva in modo insaziabile fino a consumarsi per lasciare spazio al seguente che scorreva uguale. Non mi capitava spesso di pensare al futuro forse perché non riuscivo ad avere ancora coscienza della realtà o forse perché ero ferma, proprio come l’orologio, alla sera del 27 febbraio. Dopo mesi di presa di coscienza, dolorosa ma decisiva, iniziai a maturare “la determinazione di non estinguersi”, di non arrendersi all’inevitabile ma di combattere non più per la sopravvivenza ma per la vita. Così, quando tutto sembrava irrecuperabile, fiorì una forza interiore capace di vincere le difficoltà e spingere ciascuno a realizzare l’impossibile: la speranza. Si fece strada tra i mali portati dalla cieca sorte, come uscita dal vaso di Pandora e in breve trasformò il deserto di sciagure e dolori in un giardino di rose.

Sofia Granelli, 5clC

Pubblicato da L' Acuto

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