Un dio fai-da-te o Dio è per me?

Ecco l’articolo di Paolo Balordi vincitore della sezione parole del concorso bandito dal Festival del diritto piacentino.

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Un dio-fai-dai-te; un universo di consumisti religiosi; un believing without belonging: noi generazioni future crederemo ancora o miscrederemo, incontrandoci da Leroy Merlin per fabbricare le nostre divinità? Nessuno è veramente solo a questo mondo: noi tutti abbiamo il nostro dio, il nostro dolore o il nostro orgoglio a farci compagnia?

Il 27 settembre 2015, ore 17.30, Associazione Amici dell’Arte, l’ottava aquila del diritto tinge di blu la triadica conferenza, nella quale i professori di metodologie educative e scienze umane Pierpaolo Triani e Fernando Bellelli e il professore associato di filosofia del diritto, Paolo Heritier intervengono sulla coscienza e il superamento dell’individualismo religioso, perno della modernità.

Il progredire della scienza e della tecnica, l’avanzare della modernità, arrestano la comunicazione del messaggio evangelico: la secolarizzazione tecnocratica, il relativismo, la cultura dell’effimero, la debolezza delle comunità cristiane costituiscono i termini di un confronto-scontro che ci ha reso, ci rende e forse ci renderà incapaci di credere e sperare, di vedere.

E per trasfigurare questa idea, che incombe e ci spaventa, di una modernità come ineluttabile marcia verso il futuro, i tre templari profondono il loro impegno: siamo noi, la generazione degli sdraiati di Michele Serra, delle adidas di Stan Smith, la modernità in cui nulla perdura, in cui gli unici legami istituibili sono con un passato da cui impariamo, un futuro a cui guardiamo e un presente in cui dormiamo, presbiti a eludere la nostra solitudine esistenziale. Siamo noi e finiamo per perdere la fiducia negli altri e nell’altro.

Proprio questa prospettiva presbite verso il credere lo definisce come impellente e inevitabile; perdere il rapporto con la religione, con il senso del sacro e il suo culto, significherebbe – argomenta Fernando Bellelli – non tanto abnegare il passato, quanto rinunciare al futuro: un futuro di conferme che ci riempiono, di preghiere che ci ascoltano, di aspettative che ci attendono; un futuro che non sia un miraggio, un futuro che contenga e soddisfi la nostra impazienza escatologica. Questo era l’intento del beato Antonio Rosmini; questo è l’intento del suo “pizio” – dalle gestualità contorsionistiche e spasmodiche – Fernando Bellelli: l’appropriazione di questa esteriorità, di questa sacralità, permette al soggetto di portarsi fuori di sé, per riconoscere, estatico, l’immagine di se stesso nel sacro.

Inutilmente pretestuosa la conferenza? Probabilmente, forse come tutto ciò che giganteggia e pare difficile, ciò che viene compreso con occhi che disegnano e ridisegnano la nostra interiorità di suggestioni, la sensibilizzano, la dispongono alla percezione e alla coscienza di quella alterità assoluta, che è il sacro, il Dio per me, il Dio che si rivela e chiede amore con il grido del Figlio suo abbandonato; ciò che è compreso con occhi, non trasparenti, uguali nella varietà e variegati nell’unità, i miei occhi in quel pomeriggio; i nostri occhi per il futuro.

 

Pubblicato da L' Acuto

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