Non raccontiamoci bugie: quando sentiamo lo stomaco in gola e quel sentore angosciante e profondo come un pugno del fegato, godiamo.
Le orecchie diventano sorde e concedono al resto il corpo il dono dell’udito: vibrazioni e basse frequenze si mescolano a gemiti ad alta voce e ululati in coro, risvegliando i primordiali istinti delle interiora umane.
E’ Karl Scotch, con la sua musica e le sue prestazioni dal vivo, con quei tum-ta alternati a spaziali synth, che ci agita come baristi con un Coca & Rum: di larga veduta, competente e decisamente troppo bravo per essere vero, si racconta (e si sfoga).
1. Hai 19 anni, ma cominci a muoverti nell’ambiente della musica elettronica fin da piccolo. Cosa ti ha spinto verso questo genere e non verso altri? C’è un episodio in particolare?
Il mio avvicinamento al mondo musicale avviene da piccolissimo, divertendomi a “suonare” (più che altro rumoreggiavo) con la vecchia batteria blues di mio padre. Subito inizio ad incuriosirmi ascoltando gran parte degli LP presenti nell’amplia collezione del vecchio, giocando con le manopole del mixer e l’asta del giradischi (gli intramontabili Technics SL 1200). Ero piccolo, prendevo dischi senza criterio e li ascoltavo, aggirandomi tra mucchi di vinili di generi ben lontani tra loro (iniziavo con i Genesis, passando per la Premiata Forneria Marconi e Riccardo Cocciante, concludendo con i Kraftwerk).
Ma i Kraftwerk, quanto mi piacevano… Quelle sonorità cupe ed elettroniche mi stupivano ogni volta che uscivano dalle casse. La loro musica e quella di Jean Michel Jarre mi hanno sempre fatto riflettere: come si riesce a comporre ed assemblare certi suoni?
Con il passare del tempo, le nuove tecnologie (delle quali sono un appassionato) mi hanno portato a riprodurre quei sogni che sognavo, spingendomi sempre più in là nella composizione elettronica.
Ci tengo a dire che sono un grandissimo appassionato di jazz e musica classica: acquisto in continuazione dischi nuovi o vecchi che siano, non smetto mai di ascoltare sonorità varie, che sia Bach o un mixtape di hip-hop.
2. In mezzo a questa accozzaglia di pseudo-dj che sta emergendo sempre più si crea un divario notevole tra chi compone pezzi propri e chi sceglie la via facile del remix. Tu mescoli le due cose abilmente, proponendo vivaci reinterpretazioni di brani di successo e affinando il tiro con pezzi composti da te. E’ quindi, secondo te, un elemento importante la composizione di pezzi propri, o si può essere grandi dj semplicemente tagliando e incollando pezzi altrui?
Oggigiorno avvicinarsi al mondo della musica elettronica e delle tecnologie è sempre più facile ed immediato. Credo sia una cosa positiva, poiché ognuno può provare a cimentarsi nella sperimentazione sonora ed esprimere il proprio estro.
Purtroppo però, così facendo, si è creato un numero di “artisti” che lavorano senza sapere ciò che fanno: la maggior parte di chi oggi si definisce DJ non ha la più pallida idea di come si suoni con un disco in vinile o con una console che non sia uno di quei giocattoli da collegare e gestire con il pc.
Bisogna quindi capire quali sono le tracce e gli artisti che davvero valgono, non limitandosi ad uno snobbismo di genere, ma ascoltando la totalità dei suoni: un DJ, per essere riconosciuto e apprezzato ha il dovere di “contaminare” i pezzi che sceglie con qualcosa di proprio, poiché mixare tracklist di artisti famosi è cosa da niente.
In questi anni ho avuto la fortuna di incontrare alcuni tra i migliori compositori e produttori di musica dance (Danilo Rossini, Alex Guesta, Marco Benny Benassi) e ho visitato i loro studi, dove mi sono approcciato ai loro metodi di lavoro: stuzzicato da queste esperienze, mi sono costruito un piccolo studio di registrazione dove realizzare tracce e remix sempre nuovi e freschi all’interno dei miei dj-set.
3. Si discute tantissimo sull’argomento “locali”: c’è chi afferma che i gestori siano dei menefreghisti, chi dice che sono delle sanguisughe, chi dice che fanno bene il proprio lavoro, e così via. Cosa ne pensi tu dell’ambiente in cui suoni? Questione di soldi o velato interesse artistico?
Domanda interessante, che rispecchia quello che è forse ora il problema più ampio della scena musicale disco (e non). Ci sono diversi tipi di approccio alla musica: sicuramente il background musicale rispecchia quella che è la situazione e la clientela di un determinato locale (se ascolto l’elettronica più spinta, difficilmente riuscirò ad entrare nel locale chic, dov’è d’obbligo la giacca); i gestori ovviamente fanno il loro interesse, cercano di lavorare il più possibile e con una clientela disposta a spendere.
Nella nightlife milanese i miei occhi si sono aperti molto: nei locali gestiti con una certa competenza e professionalità, è quasi impossibile trovare gestori non più interessati al versante artistico della serata ed è altrettanto difficile notare la figura del “dj-pr” che giochicchia con la console ogni weekend solo perché in grado di attirare persone e amici.
Se piaci, se ci sai fare, puoi lavorare molto più facilmente di quanto si possa credere, indipendentemente da chi conosci.
4. Per finire, passiamo al particolare: Piacenza e i suoi mostri. Ti lascio spazio per muovere una critica, un pensiero, una riflessione sulla situazione piacentina: dj, locali, serate, eventi, organizzazioni, soldi, pubblico. Cosa funziona? Cosa non funziona?
Punto dolente. Mi piacerebbe operare un confronto con quanto detto precedentemente, paragonando una delle movide più famose alla nostra.
Qui, Piacenza, non funziona più nulla: i locali sono pochi, i clienti ancor di meno ed i soldi scarseggiano. Non limitiamoci però a “schifare” la nostra città e il nostro ambiente dance: la situazione attuale è semplicemente frutto della recente formazione di organizzazioni fantoccio, gruppi di persone senza un briciolo di competenza e sponsor che si scontrano ormai da anni in una continua “guerra tra poveri” che non porterà a nulla di buono.
Stesso discorso è da applicarsi alla scena musicale: Piacenza è una città piccola che al contrario delle aspettative, può dare tanto; sarebbe però necessario smetterla di schierarsi l’uno contro l’altro, facendosi belli sui difetti altrui.
Quello che più manca è il senso di collaborazione, il tacito accordo tra musicisti, la voglia di ascoltarsi a vicenda e migliorarsi, la necessità di “rinfrescare” una scena musicale morta.
Che, a dirla tutta, non si è ancora formata.
Riccardo Covelli
Ma eravate fatti di crack quando avete scritto questa boiata?
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